Contaminazioni felici nei nuovi linguaggi aziendali

un'intervista a Franco Amicucci

Il 17 settembre 2004 è stato un giorno un po' speciale per me e per le mie colleghe. Un'azienda del mio gruppo, Tele Sistemi Ferroviari, ci invitava in un grande teatro romano per un evento di comunicazione davvero inedito: un musical, interamente scritto e realizzato dai dipendenti. Realizzato senza consulenti, in tempi impossibili. Il tema: l'azienda stessa, ma raccontata con musica, parole e immagini invece che con le brochure e con le pagine dell'intranet.
La curiosità era tanta, e francamente lo scetticismo pure. Soprattutto per una come me, che ha sempre avuto con l'azienda un rapporto molto professionale ma distaccato e poco emotivo. Che tanti colleghi avessero perso sonno e domeniche per fare insieme un musical mi sembrò un'idea bislacca, ma sicuramente da conoscere.
Ma quel giorno il Teatro Brancaccio di Roma era gremito, il musical godibilissimo, le canzoni decisamente belle, l'atmosfera coinvolgente, il morale di tutti alle stelle. Anche quello di noi spettatori.
Ho ritrovato questa esperienza in un bel libro uscito da poco, La formazione fa spettacolo di Franco Amicucci (Edizioni Sole 24 Ore, 262 pagine, 25 euro), dedicato al nuovo modo di fare formazione che si sta affermando in molte aziende italiane, piccole e grandi. Una formazione che esce dalle aule per andare in conventi, enoteche, campeggi, librerie e teatri. E che soprattutto, sperimenta nuovi linguaggi.
Un tema da approfondire insieme all'autore, Franco Amicucci.

Negli ultimi dieci anni, da quando internet è con noi, la consapevolezza dell'importanza della scrittura nelle organizzazioni - pubbliche e private - è andata crescendo e affinandosi. Soprattutto sul modello americano, che ha predicato la precisione, la brevità e la semplicità dei testi. Testi a volte fin troppo semplici… "l'omogeneizzata voce del business", come l'hanno chiamata gli autori del Cluetrain Manifesto. Non trovi che questo modello stia mostrando i suoi limiti?

Non vedo una diretta conseguenza tra la chiarezza e la sintesi e l'attuale tendenza a testi omologati. L'omologazione la fa in realtà l'habitus mentale e culturale delle nostre organizzazioni. Il linguaggio della sintesi è anzi il linguaggio della creatività, ma la sintesi non è tutta uguale. Un testo sintetico può esprimere anche una visione, una pennellata.
L'assenza di creatività non è dovuta tanto ai modelli che ci arrivano da oltreoceano, ma dalla cultura burocratica, da una cultura organizzativa che porta all'appiattimento, alla paura di esprimersi. Il risultato della chiarezza e della sintesi è spesso la leggerezza della scrittura, che non esclude ma esalta componenti di soggettività e creatività molto forti.

È vero, e la poesia ce lo insegna. Però nelle aziende si scrive sempre di più e soprattutto si scrivono testi lunghi e sovrabbondanti.

Sì, indubbiamente nelle organizzazioni c'è una sovrabbondanza di comunicazione scritta, una tendenza dovuta soprattutto alla diffusione dell'email. Tutto sembra debba essere scritto e depositato.
Ma se ci riflettiamo bene, anche l'oralità è a volte sovrabbondante. Pensiamo solo a certe riunioni…
Tutti questi "eccessi" sono a volte patologici, perché accanto ad essi c'è una carenza di riflessione sui flussi di comunicazione, verbale e scritta.
Dietro tutto questo c'è il modello organizzativo: se non c'è fiducia interna e condivisione di obiettivi, la comunicazione può diventare uno strumento di autoconservazione, di autoprotezione.
"L'ho detto e l'ho scritto" spesso lo si afferma solo per proteggersi, per pararsi le spalle, mentre in un'organizzazione che funziona, la comunicazione è fluida e non ha bisogno di formalizzare tutto.
Nella mia esperienza la comunicazione è molto voluminosa e ridondante proprio nelle organizzazioni dove c'è poca fiducia e una conflittualità latente. E' come nelle relazioni personali: quando una coppia funziona, non c'è bisogno di parlare continuamente, perché ci si capisce al volo.
Nelle organizzazioni, quando non ci si intende al volo, si scrive molto. Questo è sempre un sintomo di qualcosa che non funziona, a livello cognitivo o a livello emozionale.

Accanto ai modelli di scrittura sintetica e funzionale, cominciano a emergere nelle organizzazioni anche modelli diversi, basati sulla dimensione e i ritmi narrativi… è quello che i nostri colleghi anglosassoni chiamano lo storytelling.

Sì, è una modalità che si afferma quando c'è la volontà dell'azienda di ripensare se stessa, di promuovere alcuni valori. Questo chiede più spazio, lo spazio della riflessione, che spesso ha bisogno di strumenti potenti quali la metafora, di attingere a linguaggi diversi e nuovi, di tempi più lenti e meno nevrotici, di spazi di ascolto.

Per far questo, ci sono oggi aziende che vanno "in ritiro", in spazi diversi: conventi, campeggi, centri di recupero, dove è più facile cambiare linguaggio, intrecciare il proprio vissuto e la propria voce con quelle degli altri.

C'è quindi anche un recupero di una dimensione individuale?

Be', la dimensione individuale e di concreto vissuto nelle aziende c'è sempre stata, ma a livello informale e più orale: storie, aneddoti, miti, ricordi.
E' diverso quando un'organizzazione, con consapevolezza, decide di riflettere insieme su alcuni valori. Lo si può fare raccontando storie, oppure riflettendo su un libro, leggendolo alla luce della propria realtà lavorativa. E così arrivare velocemente, anche a livello simbolico, al cuore del problema. Mentre la formazione classica, con il suo linguaggio formale, permette ai singoli e ai gruppi di attivare molte più difese.

I nuovi linguaggi si creano dal basso o c'è sempre anche una volontà di cambiamento, una spinta da parte del management?

È la domanda che ci si fa sempre anche nella moda… i nuovi stili li creano gli stilisti o nascono nelle città, nei quartieri, tra i giovani, e poi gli stilisti li interpretano e li affermano?
Credo che le due cose avvengano insieme, anche in un'organizzazione. I segnali vengono da più parti e si incontrano. Sono anzi convinto che i nuovi linguaggi della comunicazione aziendale nascano fuori, nella società. L'azienda li fa propri, sia osservando con attenzione cosa succede fuori, sia attraverso i propri dipendenti: nello sport, nella moda, nello spettacolo, nei gruppi di minoranza.
I nuovi linguaggi nascono quando i segnali deboli, i bisogni latenti, si incontrano con la sincerità e la reale volontà di cambiare le cose da parte del management. Altrimenti cambiare linguaggio è solo un'inutile scorciatoia.

Ci puoi fare qualche esempio, tratto dalla tua esperienza?

In Telecom Italia la compilazione di un questionario da parte dei dipendenti - cosa ormai difficilissima da ottenere - è stata legata alla partecipazione a un concorso in cui si vincevano biglietti per il concerto degli U2. Hanno risposto in 10.000 su 48.000.
La compilazione del questionario è stata legata a uno stimolo esterno forte, al mondo della musica.
Gli incentivi tradizionali non funzionano più e a volte sono percepiti anche come offensivi. Quelli ottimali puntano invece al potenziale delle persone.
Per tutta l'era industriale, l'azienda ha richiesto alle persone di utilizzare la loro capacità esecutiva, l'intelligenza linguistico-verbale, unicamente finalizzata alla performance del ruolo. Ruolo a volte molto specifico e parcellizzato.
Invece ogni persona è ricca di talenti e passioni, anche extralavorative: sport, pittura, letteratura, ballo… ma all'azienda di queste cose non è mai importato granché.
Ora tutto sta cambiando rapidamente e radicalmente. Perché il mondo sta cambiando ed è difficile, spesso impossibile, prevedere quali competenze un professionista debba sviluppare per il futuro, su cosa investire. L'unica strada possibile è investire sulla persona tutta intera, sulle sue potenzialità.
In Tele Sistemi Ferroviari il linguaggio nuovo della comunicazione interna è stato quello del teatro, anzi del musical. Quando vi partecipano spontaneamente 120 persone su 600, vuol dire che qualcosa di importante sta succedendo. Chi ha contribuito con la sua passione per la musica, chi con la scrittura della sceneggiatura e dei testi delle canzoni, chi con le scenografie, chi con l'organizzazione dell'evento… tutto questo ha permesso all'azienda di parlare un linguaggio diverso e di abbattere ruoli tradizionali.
Una multinazionale come l'Arval nella sua intranet ha utilizzato il gioco, la pittura, la letteratura per offrire ai dipendenti ogni settimana uno spunto di riflessione diverso. Si parla di azienda, ma parlando d'altro. Il coinvolgimento è stato altissimo e ha scatenato un concorso di creatività e di idee. Come quella di piantare un albero per ogni contratto automobilistico stipulato, o i consigli per la manutenzione della macchina perché inquinii di meno.

Nel mondo del lavoro la scrittura non serve solo per comunicare in modo ufficiale all'interno e all'esterno, ma anche per chiarirsi le idee, per prendere appunti, per parlare con se stessi, per stendere un piano…

Sì, ed è una funzione importantissima. In Arval, per esempio, è stato regalato un Moleskine ad ogni dipendente, da tenere in ufficio per i suoi appunti personali.
Ma pensiamo anche a quella immensa produzione scritta che sta dietro le scrivanie, appuntata su lavagne magnetiche e bacheche di compensato: post-it, foto, citazioni, articoli di giornale ritagliati, poesie, cartoline, email. Sarebbe interessantissimo farci uno studio.
Questo a livello più emotivo e individuale, ma c'è tutta una produzione individuale scritta di livello professionale: schemi, promemoria, appunti strutturati, ma anche metaplan, mappe mentali, o la storia fotografica di un progetto.

Si impara a scrivere leggendo molto, e questo vale anche per la scrittura professionale. Anzi, si impara sicuramente di più dalla letteratura che dai manuali (e dai siti) di business writing…

Sono d'accordo, e in questa direzione ci sono diversi esperimenti riusciti, veri e propri cortocircuiti tra scrittura creativa e scrittura professionale.
Da due anni, con l'Associazione Italiana Librai e con l'Associazione Direttori del Personale portiamo avanti l'iniziativa Biblioteca in azienda. Niente libri tecnici o di management, ma solo letteratura. A volte anche incontri con scrittori dentro l'azienda, come è successo di recente in Meyers Squibb, che ha ospitato Sandra Petrignani.
La partecipazione è stata alta, oltre un terzo dei dipendenti, al di fuori dell'orario di lavoro.
Sono già trenta le aziende italiane che aderiscono all'iniziativa. La lista di base è stata messa a punto da importanti scrittori e comunicatori, ma poi la biblioteca viene arricchita con le segnalazioni dei dipendenti, mentre sull'intranet viene segnalato il "libro della settimana".

Non dimentichiamo poi quanti concorsi letterari stanno lanciando le aziende, soprattutto quelle grandi. Quello di Telecom Italia si è appena concluso, con l'invio di oltre 1.000 racconti sul tema del lavoro.

C'è sicuramente un gran desiderio espressivo da parte dei dipendenti, anche su temi e stili che riguardano la loro globalità di persone, ma c'è anche la consapevolezza che oggi è necessario investire su questa globalità perché non si sa quali competenze specialistiche saranno necessarie in futuro. Competenze tra le quali c'è però sicuramente la creatività, intesa come capacità di cambiare, di imparare, di guardare ai problemi in maniera diversa, meno scontata e ripetitiva.
E anche la scrittura è tra queste competenze.
Se ci pensiamo, ogni scrittura necessita di un progetto, anche minimo. Una brochure, un piano, un'offerta, un'email.
E un progetto è una visualizzazione, una visione. Non c'è strumento migliore della letteratura per creare visioni, per destrutturare il conformismo aziendale e mentale, per sviluppare linguaggi originali che non si rifanno a un format, a un documento che qualcuno in azienda ha scritto prima di noi.


Franco Amicucci è sociologo, formatore, collaboratore di Sistemi Formativi Confindustria e di importanti multinazionali e grandi gruppi italiani. Docente di Sociologia dei processi comunicativi alla Facoltà di Economia dell'Università di Macerata, corso di Laurea specialistica in Pubblicità e comunicazione d'impresa, nel 2000 ha fondato Amicucci Formazione, per la ricerca e la sperimentazione di una formazione innovativa.