Alzare l’asticella dei concetti, abbassare quella del linguaggio
Un linguista racconta come coniugare semplicità, profondità e vivacità
che storia! la storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro è un libro di storia diverso dagli altri.
Per raccontare in poco più di 130 pagine oltre 2.000 anni del nostro paese – dai grandi avvenimenti alla quotidianità della vita – ci si sono messi in due: un linguista e uno storico. Gabriele Pallotti insegna Didattica delle lingue moderne all’Università di Modena e Reggio Emilia; Giorgio Cavadi è un dirigente scolastico che ha insegnato italiano e storia nelle scuole superiori. Entrambi hanno molta esperienza in progetti educativi.
Il risultato del loro divertissement – perché a scriverlo devono aver provato molto gusto – è un libro delizioso, che ho letto in un fiato e che mi ha insegnato tante cose che non sapevo. Per esempio che gli antichi romani lavoravano più o meno un giorno sì e uno no, e che in ogni caso a mezzogiorno smettevano e se ne andavano alle terme. Oppure come spendeva lo stipendio un operaio milanese alla fine dell’ottocento (se ne andava praticamente tutto per mangiare).
Ora che si parla tanto di storytelling, ne è un esempio riuscitissimo: ti sembra proprio di sentire la voce dei due professori che raccontano.
Fedeli al titolo, lo fanno in modo semplice ma mai banale. Anzi, gli approfondimenti ci sono, e tanti, dalle ricette alla vita e l’arte di Michelangelo.
Nulla è lasciato al caso, e siccome il linguista Gabriele Pallotti è insieme un amico e uno dei maggiori esperti italiani di linguaggio chiaro ed efficace, ne ho approfittato per chiedergli di svelarci alcune strategie per coniugare semplicità, profondità e vivacità.
Un libro per raccontare la storia in modo semplice e chiaro. Per chi lo avete scritto?
Ottima domanda, e giusto porla per prima. Un testo è sempre "semplice e chiaro" per qualcuno, mai in assoluto o in astratto.
Inizialmente, pensavamo soprattutto agli stranieri che vogliono conoscere l'Italia e l'italiano. Poi, abbiamo pensato che un libro così può interessare anche a molti italiani che, dopo tanti anni di storia studiata a scuola, hanno ancora idee molto confuse, se non una vera e propria avversione per la materia. Che invece è affascinante e divertente, a patto di enfatizzare appunto lo storytelling: tutti leggiamo con piacere le storie avventurose di personaggi immaginari, perché non leggere quelle di Federico Barbarossa o Garibaldi? E tutti ci impicciamo dei fatti altrui, per cui troviamo naturalmente interessante sapere quanto guadagnava un centurione romano, un pittore rinascimentale o un operaio milanese.
I linguisti come te ci insegnano che un testo leggibile e chiaro ha periodi brevi. Mi sono divertita a misurare i periodi di che storia! Non andate mai oltre le due righe… eppure il ritmo non ne risente. Come si fa?
Intanto, due righe non sono pochissimo: possono contenere anche 35-40 parole, che superano già il limite di 25 che alcuni fissano per i testi semplici.
Nello scrivere il testo (che, per il suo aspetto formale, è in gran parte responsabilità mia, il linguista), non ho mai contato le parole di una frase, né usato indici come Gulpease.
Ho cercato sempre di non essere pesante, di mantenere quello che opportunamente chiami il ritmo. Questo ha a che fare di nuovo con l'identificazione dei destinatari.
Una prima versione del testo aveva periodi mediamente più brevi, forse più in linea con le indicazioni di periodici come dueparole.
Sicuramente lo straniero principiante, o il bambino piccolo, o il lettore con deficit cognitivi, potevano trovare questa versione più facile. Ma alla fine rischiava di risultare noiosa, monotona, frammentaria per lettori con maggiori competenze. Non ci vuole molto a sostituire una virgola o i due punti con un punto fermo: il periodo risulta più breve, e l'indice Gulpease sale.
Ma la domanda da porsi è: voglio ottenere un indice Gulpease più alto possibile o scrivere un testo, oltre che chiaro, anche piacevole, avvincente, "ritmato"? Sempre pensando a un certo tipo di destinatario, ho scelto la seconda strada. Chi fa fatica a leggere periodi di più di 20 parole, comunque farebbe una fatica enorme a leggere 130 pagine: dunque quel tipo di lettore è escluso proprio dal tipo di testo.
E allora ho seguito l'istinto, il mio senso del ritmo, senza sacrificarlo a dogmatismi quantitativi. Un lettore può abbandonare il testo perché le frasi sono troppo lunghe, ma un altro lo può abbandonare perché non ne può più di elenchi puntati con periodetti di dieci parole.
Non credo che la chiarezza ne risenta molto. Anzi, ci sono studi sperimentali che dimostrano che due frasi legate da una congiunzione subordinante risultano alla fine più comprensibili di due periodi semplicemente giustapposti. Il punto fermo è sicuramente un'indicazione preziosa per l'elaborazione cognitiva del lettore, ma anche congiunzioni come perché, se, quando servono per aiutare ad integrare le informazioni. Di nuovo, io scrivo pensando a un lettore, con i suoi processi di integrazione delle informazioni e il suo senso del ritmo, non pensando a indici di leggibilità.
Le parole sono semplici. Sembra che abbiate lavorato con il Vocabolario di Base (VdB) alla mano, ma nella lettura ho avuto sempre una sensazione di grande vividezza, di “vedere” vivere e lavorare gli italiani di tanto tempo fa. Quali criteri vi hanno guidato nelle scelte lessicali?
Anche qui, ammetto di non avere consultato il Vocabolario di Base nemmeno una volta nella stesura del testo. Nella scelta lessicale mi sono affidato alla mia esperienza pluriennale di insegnante di italiano a stranieri, di autore di testi professionali, di formatore di insegnanti e di comunicatori. Ho incontrato tanti testi scritti male e tante persone che facevano fatica a comprenderli: riesco a "sentire" le parole che possono dare difficoltà senza bisogno di cercare conferme in vocabolari di base che non sono altro che liste di frequenza, compilate a volte in modo piuttosto discutibile e comunque non rilevante per tutti i contesti e tutti gli scopi.
Mi dispiace non riuscire a essere più preciso, a dare ricette e metodi espliciti. Credo però che questo non sia possibile e nemmeno opportuno. Per scrivere bene occorre essere sensibili agli altri, mettersi nei loro panni, anticipare le loro difficoltà ma anche i loro gusti e piaceri, avere un orecchio linguistico ben temperato. Indice Gulpease e VdB sono strumenti utili soprattutto per sensibilizzare le persone, per denunciare l'inadeguatezza di certi testi; lo sono meno per lo scrittore professionista che ha già sviluppato una sua sensibilità.
Non vorrei che questo mio discorso sembrasse fare il gioco di tanti burocrati che sostengono che il loro burocratese "è bello". In realtà, non è bello per niente. Effettuare faceva schifo a Calvino e lo fa anche a me: non è più specifico ed efficace di fare, ma semplicemente più borioso. Non aggiunge ritmo, grazia, piacevolezza, nemmeno variazione. Periodi di 50, 60 e 70 parole non funzionano non perché superino una certa soglia predeterminata, ma semplicemente perché impacchettano troppi concetti, in modo spesso maldestro e sgangherato.
Credo che tra il burocratese e il linguaggio fin troppo semplice ci sia spazio per una scrittura agile, piacevole e chiara. Purtroppo in Italia occorre ancora discutere per sostenere che questo modo di scrivere è bello e giusto. Ma prima o poi ce la faremo a convincere il prossimo, a cominciare dagli insegnanti.
Quanto si deve e quanto si può semplificare nei testi per il mondo della scuola? Non c’è il pericolo di abbassare troppo l’asticella, soprattutto ora che i ragazzi comunicano già tra loro sui social media con un linguaggio fin troppo semplice?
Secondo me si può semplificare molto nei libri scolastici, senza timore di abbassare alcuna asticella. La scuola italiana considera la difficoltà linguistica, specialmente quella lessicale, un obiettivo educativo fondamentale, mentre è un male da evitare. Provate a leggere i testi dei premi Nobel: secchi, lineari, direi anche semplici, al di là della complessità della materia. La difficoltà linguistica emerge invece tipicamente negli scritti degli autorucoli provinciali, Azzeccagarbugli accademici che, avendo poco o niente da dire, rivestono il loro niente di paroloni difficili.
A scuola bisogna insegnare a capire la complessità dei fenomeni, non a dare etichette astruse per descriverli. Bisogna alzare l'asticella dei concetti e abbassare quella del linguaggio. Qualche anno fa l'indagine internazionale OCSE-PISA rivelò che metà dei quindicenni italiani non aveva capito che la notte segue il giorno perché la Terra ruota sul suo asse. Eppure fin dalle elementari si insegnano i termini rotazione, rivoluzione, asse terrestre, dì, notte, e poco dopo sui libri troviamo persino afelio e perielio.
L'insegnante interroga sui nomi, non sui processi, abbagliato da una specie di feticismo terminologico. Ugualmente, ci hanno frastornato fin da bambini sulle parti del fiore (petali, sepali, stami, pistilli, ovario, talamo ecc), ma tante persone, anche laureate, non capiscono alla fine che il fiore serve a riprodursi, che è l'equivalente degli organi genitali degli animali. E vogliamo parlare della distinzione tra immissario (fiume che entra in un lago) ed emissario (fiume che ne esce)? Servono proprio due nomi per questi due fiumi? Eppure ogni insegnante elementare li considera parte irrinunciabile del programma.
E così ci si ostina a insegnare nomi, etichette, invece di capire le dinamiche, i processi. Si confonde l'educazione linguistica con l'erudizione lessicale. Nel nostro libro i nomi di particolari categorie storiche sono pochissimi, ma si cerca di spiegare perché le persone combattevano, commerciavano, costruivano case in un certo modo, chi comandava, chi lavorava, come e perché. Ecco perché in 130 pagine diciamo certo molte meno cose di un manuale scolastico, ma anche tante cose in più che nei manuali non si trovano.
Nel vostro libro le immagini sono importanti. Non moltissime, ma scelte con cura: opere d’arte, foto, cartine, grafici, manifesti. Come vedi il rapporto tra parole e immagini nei testi scolastici ora che il web ha preso una piega decisamente visiva?
Le immagini nel nostro libro sono sempre funzionali alla comunicazione: servono a spiegare alcuni concetti che sarebbero difficili da spiegare a parole. Le immagini sono importanti, ma non possono mai sostituire il linguaggio verbale. Bisogna sceglierle sapendo bene a cosa servono, in che modo sono complementari rispetto al testo. Altrimenti hanno una funzione meramente decorativa: la decorazione non fa male, può essere anche piacevole, ma bisogna stare attenti a che non diventi un elemento di distrazione.
Sempre pensando all'editoria scolastica, gli insegnanti rischiano di adottare un testo solo per il suo look un po' ruffiano, mentre credo che l'elemento fondamentale sia la chiarezza e l'efficacia del messaggio, verbale e non verbale. Insomma, c'è il rischio di dare una patina di colore digitale a nozioni e metodi antiquati e inutili: presentare l'emissario e l'immissario, ma anche il complemento di vantaggio o di pena, con una lavagna multimediale, è mettere qualche lustrino moderno su un insegnamento fiacco e stantio.