Esercizi di brevità

tratto dal Corriere della Sera, 29 agosto 1999

Ma Tacito fece meglio di Blair
di Luciano Canfora

Che leninista quel Tony Blair. Ora i lord, per salvare il seggio, dovranno scrivere un intervento di 75 parole al massimo, pari a cinquanta o sessanta secondi. Nel suo primo Consiglio dei ministri (o meglio, come allora si chiamavano, "commissari del popolo"), nel novembre del 1917, Lenin fissò un limite di due minuti per ciascun intervento dei suoi ministri. Lo racconta Trotzkij, il quale era uno di loro, nelle sue memorie. Nessuno sgarrava. Il vantaggio per la discussione fu enorme e forse anche lo dimostrano le decisioni allora prese.
La brevitas degli antichi romani andava oltre. Quando Cesare celebrò il trionfo su Farnace, re del Ponto, nella sfilata che si tenne a Roma alquanto tempo dopo, i legionari, che di solito erano piuttosto pungenti, esibivano tre cartelloni scritti in lettere capitali. Su ciascuno una parola: "veni", "vidi", "vici". Era quello il resoconto dell'intera campagna come ci racconta Svetonio alquanto ammirato.
Nella prima pagina degli Annali Cornelio Tacito, rifacendosi a un altro campione di brevità quale fu lo storico Sallustio, raccoglie in poche frasi, che valgono più di un trattato, la storia del potere a Roma. Eccole, nella traduzione di uno scrittore, Enzio Cetrangolo: "Roma fu da principio dominio dei re. Bruto fondò la libertà e il consolato. Temporanea la dittatura. Il potere dei decemviri non andò oltre il biennio. Né lunga fu la potestà consolare dei tribuni militari. La tirannide di Cinna, e poi di Silla, fu passeggera. Anche la potenza di Pompeo e di Crasso toccò presto a Cesare. Le armi di Lepido e di Antonio alla fine vennero ad Augusto. Il quale imperò sul mondo, stanco di conflitti civili". In latino sono 55 parole, in italiano 78. Forse Blair è stato troppo generoso.


Ma a Garibaldi bastò dire: obbedisco
di Giovanni Mariotti

Bellissimi esempi di brevità ci vengono dall'Oriente. Cinque sette cinque sette sette - in tutto trentun sillabe: è il tanka; cinque sette cinque: in tutto diciasette sillabe: è lo haiku. Queste due forme della poesia giapponese sono bastate per secoli a sciami di poeti. Al confronto, il nostro sonetto - che Carducci definì "breve e amplissimo carme" - ci appare una forma di protrazione, un pigro ricamo.
Ma anche l'Occidente sa essere breve: la sua tradizione comporta aforismi ed epigrammi - nonché frammenti mirabili, messi a punto dagli editing del tempo, che ha l'abitudine di raschiare il superfluo. Come il mare leviga le pietre, così i secoli hanno levigato le parole dei presocratici, riducendole a sublimi, immodificabili frammenti.
In epoche più vicine, la poesia italiana del Novecento non ha ignorato le misure giapponesi. "M'illumino d'immenso" di Giuseppe Ungaretti, oppure: "Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole. / Ed è subito sera" di Salvatore Quasimodo sono rimasti impigliati, proprio per la loro brevità, nella memoria di tutti.
Altri esempi di brevità illustre offerti dalla nostra tradizione: il famoso "Obbedisco" di Garibaldi, le tragedie in due battute di Achille Campanile...
Insomma, nella cultura dell'Occidente non mancano i trattati filosofici realmente in nuce, i romanzi bonsai, i saggi di costume cortocircuitati, i gesti verbali perentori, le commedie istantanee.
Quella delle forme miniaturizzate è una storia gloriosa, e anzi si può affermare che non sa veramente scrivere chi non sa scrivere breve. E tuttavia incerta è rimasta la reputazione delle forme brevi presso la critica e l'ufficialità. Tra le molte ragioni che impedirono a Jorge Luis Borges di ricevere il Nobel vi è forse anche questa: non aver mai scritto, in tutta la sua vita, un testo che superasse le dieci quindici cartelle.


Ma solo dai giornali si impara la brevità
di Giovanni Raboni

Potenza (negativa) delle generalizzazioni. Come all'esaltazione della leggerezza avviata anni fa, in un libro troppo famoso, da Italo Calvino, si era irresistibilmente tentati di rispondere con quella - non meno legittima e, si capisce, non meno parziale - della pesantezza, così l'elogio della brevità, innescato dall'ormai famoso limite delle 75 parole decretato dal primo ministro inglese, fa subito venir voglia di intonare quello della lunghezza: la "divina lunghezza" di Schubert, di Murasaki, di Proust...
Ma lasciamo perdere l'estetica - un campo nel quale, com'è noto, qualsiasi regola può convincere in astratto ed essere rovesciata in concreto - per dire invece qualcosa degli insegnamenti di carattere pratico, meglio ancora, professionale, suggeriti dall'episodio.
Chiunque scriva su un giornale ha continuamente a che fare con limiti non meno ferrei e, spesso, non meno severi, di quelli posti da Tony Blair alla facondia dei Lord; e poco importa che siano espressi, anziché in parole come usa in Inghilterra, in righe o in battute. E c'è perdipiù, nel nostro caso, una non lieve aggravante: mentre i Lord che aspirano a restare tali non possono superare lo spazio a loro concesso, ma possono, suppongo, utilizzarlo solo in parte, noi, per ragioni facilmente intuibili, non possiamo sgarrare né in eccesso né in difetto; insomma, un vero letto di Procuste...
Ebbene io voglio dire qui (senza alcuna pretesa di offrire più d'una testimonianza personale) che niente è più utile, più educativo, più formativo (in senso non soltanto stilistico, ma anche, oserei dire, morale) di questa tormentosa costrizione. Che cosa si impara? Si impara, secondo me, quasi tutto: a pesare l'importanza, sia assoluta che relativa, degli argomenti e delle argomentazioni; a non omettere l'essenziale, ma anche, se è il caso, a non disprezzare (e, dunque, a nobilitare) il superfluo; a dosare gli effetti, posponendoli o comunque subordinandoli alla sostanza del discorso; insomma, a ragionare prima, oltre che a scrivere. Inutile dire che c'è chi ci riesce benissimo, chi solo discretamente e anche, purtroppo, chi non ci riesce affatto.
I lettori, probabilmente, se ne accorgono, ed è auspicabile che prima di giudicare (come è loro diritto e loro dovere) compatiscano.


Storia d'Italia in quattordici parole
di Beppe Severgnini

La brevità è una questione letteraria (Orazio: io non sono Lucilio, che si vanta di comporre duecento versi in un'ora); giornalistica (Montanelli direttore: quando avete finito di scrivere, tagliate ancora dieci righe); economica (i periodici inglesi pagano a parole; anche qualche rivista italiana, ma in un altro senso).
La brevità, tuttavia, è soprattutto una sfida. Perciò se Tacito, citato da Luciano Canfora, ha riassunto la storia del potere a Roma in 55 parole, credo di poter restringere la storia della Repubblica Italiana in 50. In fondo è più breve (e sempre di potere a Roma si tratta). Dunque: "Persa malamente la guerra, gli italiani dovettero scegliere tra monarchia e repubblica, socialismo e democrazia. Votarono le soluzioni numero due, ma non smisero di litigare. Ricostruirono il paese, combinando qualche disastro. Cinquantasei governi osservarono. Gli italiani prima obbedirono agli americani; poi li imitarono. In Europa vollero esserci sempre. Mica scemi".
Una versione comunista in 42 parole? Eccola: "Sconfitto il fascismo, gli italiani scelsero la repubblica, ma si inchinarono alla chiesa. Le masse ricostruirono il paese. Il capitale se ne avvantaggiò, complici cinquantaquattro governi dei padroni. Poi arrivarono i compagni Bertinotti e Cossutta. Cambiò poco. Colpa degli americani e dell'Europa".
Una storia leghista in 33 parole? Pronti: "Uscito dalla rovinosa guerra romana, il nord ricostruì il paese. Il sud mafioso lo sfruttò, favorito da governi corrotti. Arrivò Bossi: il nord poteva scegliere libertà, gloria, indipendenza! Preferì la moneta unica».
Ho ancora spazio? Una ministoria d'Italia personale, 14 parole: "Persa la guerra, vinta la pace, pareggiato tutto il resto. Pensandoci, poteva andar peggio".