Le salsicce, anche cotte, non sono ammesse
di Mauro Mongarli
Al carcere penale Due Palazzi di Padova c'è un cartello che spicca tra i vari comunicati nell'ingresso riservato ai familiari dei detenuti. Dice: "Le salsicce, anche cotte, non sono ammesse"
Mi impressiona, la prima volta che entro. Lo faccio notare ai miei colleghi operatori che da anni lavorano lì, mentre io ci starò solo pochi mesi. Mentre indico il cartello penso "ora faccio la figura del pivello". Non lo aveva mai visto nessuno. Mi sento solo in carcere, sensazione acuita dallo scoprire l'esistenza, poco dopo, dell'Amaro della Polizia Penitenziaria.
Al Due Palazzi c'è un progetto credo unico in Europa: un telegiornale fatto da detenuti.
Io entro nel progetto con il compito di mettere ordine nella sintassi e nella grammatica del notiziario, cercando di dare nuovi strumenti ai redattori. Prima, devo conquistarmi la loro fiducia. Il fuoco di sbarramento è notevole, mascherato da curiosità enorme di sapere chi sono e cosa faccio.
"Sei qui per insegnarci a scrivere?"
"Saprete già scrivere, credo. Sono qui per aiutarvi a scrivere pensando a chi vi rivolgete con il tg".
"Lo sai che non lo passano più nel circuito interno, il tg? Lo sai che la tv lo manda quando vuole, in mezzo alle telepromozioni? Lo sai che è un lavoro che non ci viene pagato, come invece molti altri, qua dentro?"
Mentalmente brucio i miei appunti e le mie scalette. Mi sento come una salsiccia sicuramente cotta.
"un tg ridicolo, il nostro" dicono sempre. "Non abbiamo quasi immagini di repertorio, abbiamo pochissimi permessi per girare immagini all'esterno. Di certe cose di sicuro non ci farebbero parlare e, cosa più buffa di tutte, se succede qualcosa in carcere noi non lo sappiamo se non dai giornali!"
"Qualcuno legge gli articoli di Adriano Sofri?" chiedo. Li leggono in molti.
"Sapete, sono proprio curioso di chiedervi cosa ha lui più di voi nel fare i suoi pezzi di commento sulla quotidianità."
"Niente, è in galera. Vede la tv come noi, forse legge più giornali, sicuramente ha studiato di più..."
"Ma voi parlate di attualità con me, con i miei colleghi, con chi vi viene a trovare."
"Sì..."
"Riuscite a reggere la conversazione, o il fatto che siete qui vi fa mancare degli argomenti?"
"Beh, in linea di massima... no."
"E non vi fa pensare nulla, tutto ciò, non vedete cosa c'è dentro questo fatto? Non c'è qualcosa di strano se uno qui dentro da quindici anni si ritrova dentro le stesse opinioni/pappa di uno a piede libero? C'è davvero una realtà, da qualche parte che non sia un tubo catodico? Ha senso per voi fare un tg scimmiottando polpettoni e veline politiche?"
Ho provocato un attento silenzio.
"L'altra volta mi sono sgolato per parlare della curiosità. Ecco un bell'esempio: pensate a questo rapporto fra la realtà percepita e la libertà reale. La fonte della notizia diventate voi, la vostra sensibilità, il vostro quotidiano sentire, il vostro forzato vivere. Non è questo che volete portare fuori da queste mura?"
La scrittura, se sei detenuto in Italia, è principalmente il mezzo con il quale puoi avere le cose: tutto passa per una formale richiesta scritta, nota in gergo come "domandina" (tutto è -ino, in carcere). Tutta la tua persona passa per un pezzo di carta sul quale scrivi quello che vorresti, quello di cui hai bisogno.
Nella poca privacy della cella magari scrivi anche per te, ma il mezzo non ha alcun fascino: vedi i suoi limiti di diffusione, le tue magari scarse capacità, e tutto questo si riflette in scritti che toccano il cuore di qualunque qualità siano, perché non nasconderebbero neanche se lo volessero un disperato bisogno di comunicazione.
Mi aspettavo, in un ambiente come il carcere, di fronteggiare vagonate di retorica, poesia come valvola di sfogo, rimorsi o rivendicazioni spasmodiche a malapena esprimibili a parole.
Tutto questo c'era, ma era sovrastato dalla voglia di comunicare pura e semplice.
Ho conosciuto l'Odio, il Rimpianto, e li scrivo maiuscoli per rispetto a chi me li ha voluti raccontare, ma proprio il loro racconto contava più di quella maiuscola, pur fondamentale, se te la ritrovi dentro.
L'interesse per la sintassi, per un modo di scrivere diverso da finalizzare ad una lettura in video, è durato poco: è stato fagocitato e pressoché dimenticato una volta visto che le cinque doppie vù del giornalista, o il padroneggiare meglio i tempi televisivi li portava a migliorare la qualità del loro tg, certo, ma poco altro.
In un posto come il carcere la comunicazione vive un grado uno: ci sei solo tu sul quale contare, e non mi riferisco tanto alle ristrettezze del regime detentivo (pur presenti, importanti e inumane, anche in un carcere modello come quello di Padova), quanto al fatto che forse prima della libertà manca la possibilità di comunicare, anche al livello più spiccio.
"Mauro, io leggo tanto, e mi piace scrivere, Ma non riesco a collegare le cose. Fuori di qui mi riusciva, e mi diceva qualcosa."
"..."
"Non sai consigliarmi?"
"Beh, con nulla che abbia a che fare con la scrittura, immagino che lo capisci da te."
"Sì, ma non riesco a parlarne con nessuno."
"Cosa leggi?"
"E' qui il problema, forse. Non mi resta nulla. Se mi chiedi: cosa hai letto questa settimana? ti rispondo: quattro libri. Uno grosso, due più piccoli, uno di fumetti. Non mi resta nulla."
"E cosa hai scritto questa settimana?"
"Una lettera a mia moglie."
Scrivere alla famiglia può diventare una fatica improba: il mezzo-scrittura rivela troppi limiti.
Un "ti amo" rivolto alla moglie può suonare come una presa in giro quando lo rileggi sul foglio - magari non la vedi e tocchi da anni.
Scrivere in un carcere è un mezzo che spesso illude di poter mantenere contatti, sostenere rapporti, ma la penna corre sul filo del rivelare tra le righe gli abissi che ti si possono aprire dentro, e tutto ciò fa paura.
Se in carcere c'è davvero il grado uno della comunicazione, solo te stesso, la scrittura può diventare un'arma impropria che, anche senza volere, puoi usare contro te stesso.
E' diverso dalla parziale o totale follia di tanti grandi scrittori: loro hanno la scrittura come canale di comunicazione privilegiato, se non unico.
In carcere, scrivere può facilmente diventare un circuito chiuso. A tutto.
Mi è capitato di comunicare in modo profondo, senza quasi accorgermene, con la redazione del tg. È successo quando, in un paio di occasioni, mi sono arrabbiato di brutto, quando in pratica ho rivelato senza schermi la sincerità delle motivazioni che mi facevano essere lì.
In particolare una volta ho dato fuori di matto perché lo speaker aveva preso il vezzo di dire "agevoliamo il servizio" per lanciare i contributi filmati, come soleva fare Iachetti a Striscia La Notizia, non so se lo facciano anche altri.
Ho avuto una reazione sicuramente esagerata, ho gridato che era del tutto inutile scimmiottare Striscia che scimmiotta altri tg, che questo era negare/nascondere quanto di buono poteva nascere dal loro lavoro, che perdevano la loro identità e che se avevano qualcosa di diverso da comunicare era bene curare anche la diversità dell'esposizione, che era importante in un mezzo così "volatile" come la televisione.
Ho sentito una quindicina di cervelli (di anime?) aprirsi, mi sono sentito nudo. E in imbarazzo: a che pro gridare? In quel momento, invece, gridare si è rivelato un mezzo giusto. Non perché in carcere solo così ti puoi far sentire, ma perché in quel modo sono riuscito a staccarmi dalla processione di operatori, educatori, psicologi, volontari che scandiscono le poche ore fuori dalla cella dei detenuti. Ho mostrato al di là di formule e schemi che al loro/nostro lavoro ci tenevo, che volevo creare un contatto tra persone. Comunicare. La salsiccia, per un attimo, è stata ammessa.
Mauro Mongarli, nato nel 1965 a Porto Marghera, è scrittore, pubblicitario, triatleta ironman.
Il suo sito Testimongarli è oramai un tutt'uno con Faretesto, la prima rivista di punteggiatura in rete.