Si scrive cultura, si legge tortura
di Vittorio Ferorelli
Uno su mille ce la fa
Cartellini in libertà
Si fa presto a dire exhibit
Kantharos kantharos… chi era costui?
Promemoria: essere chiari
Uno su mille ce la fa
Immaginate di avere sotto gli occhi un comunicato aziendale che riporta, tra le altre, questa informazione:
La Commissione per la Mobilità Esterna e Interna (CMEI) svolge il ruolo di intermediario quando un impiegato rischia il licenziamento a seguito di ristrutturazione e se necessario fornisce aiuto per la ricerca di un nuovo posto di lavoro.
Ora provate a rispondere a questa domanda: "Quali sono i due modi in cui una CMIE aiuta gli impiegati di un'azienda?". Se avete risposto senza problemi, giù il cappello: fate parte di una minoranza fortunata.
Il test che avete appena superato era uno dei più difficili tra quelli sottoposti ad un campione di 3.000 italiani tra i 16 e i 65 anni. Secondo questa indagine, condotta dal Centro Europeo dell'Educazione di Frascati, il 34% della popolazione è "al limite dell'analfabetismo", mentre il 31% possiede un patrimonio alfabetico "limitato".
Alla domanda misteriosa sulla CMEI ha risposto correttamente (o semplicemente ha risposto) solo un intervistato su tre. Se la lettura di un testo è oramai alla portata di tutti, comprendere ciò che si legge sembra essere davvero un'altra cosa.
Tra l'autunno e l'inverno, tenendo bene in mente queste considerazioni, ho visitato in rapida successione tre delle mostre principali di Bologna 2000.
La comunicazione è il tema particolare assegnato alla nostra "città europea della cultura": l'obiettivo di questa piccola indagine è stato dunque esaminare in che modo queste mostre siano state comunicate al pubblico attraverso la scrittura.
Cartellini in libertà
Alla Galleria d’Arte Moderna L’ombra della ragione. L’idea del sacro nell’identità europea propone oltre cento opere di alcuni tra i protagonisti dell’arte novecentesca. All’ingresso mi viene fornito solo un comunicato stampa che riassume la mostra in due pagine. Del catalogo, in vendita, non è possibile avere in visione una copia durante la visita (come sarà anche per le altre due mostre).
Entro e mi accorgo che delle opere esposte non viene fornita alcuna scheda illustrativa. L’unico documento scritto a disposizione del visitatore è il cartellino che identifica ciascuna opera. Qui due elementi complicano la comunicazione, già così ridotta:
i titoli delle opere sono riportati solo nella lingua originale, senza traduzione in italiano
i cartellini stessi sono posizionati a una certa distanza dalle opere a cui si riferiscono, e nel caso di più opere collocate insieme non ne viene esplicitato l’ordine di riferimento (ovvero: quale cartellino appartiene a quale opera?).
Così, ad esempio, nel caso dell’artista Joseph Beuys i cartellini di cinque opere posizionate in orizzontale su due pareti sono collocati in verticale sul pilastro centrale della sala: l’effetto estetico complessivo, bisogna dirlo, è piuttosto gradevole, ma se non si sa il tedesco e non si conoscono già a menadito le opere di questo artista diventa difficile anche solo associare un titolo a ciascuna opera.
Provo ad orientarmi mettendo in collegamento ciò che vedo (delle opere) con ciò che leggo (dei cartellini), ma l’impresa è resa ancora più ardua dal fatto che si tratta nella maggior parte di creazioni "senza titolo". Così i miei dubbi sono destinati a rimanere insoluti: sulle pareti, le opere, bisogna guardarle da destra o da sinistra? E sul pilastro, i cartellini, bisogna leggerli dall’alto o dal basso?
Ma non mi scoraggio e provo a chiedere aiuto alle due paginette che mi hanno dato all’ingresso. L’unica notizia che ne ricavo è che nelle opere di Beuys
si esprime una sensibilità affondata in tensioni utopiche e idealistiche, che privilegiano la trasmissione di contenuti anche eversivi subordinando i principi formali all’efficacia del messaggio.
Una frase del genere, temo, farebbe sentire analfabeta ben più del 34% degli italiani.
Non mi arrendo ancora e decido di approfittare dell’unico computer messo a disposizione dalla Galleria per consultare il cd-rom della mostra. Cerco le opere di Beuys ma anche qui i titoli originali non sono tradotti e invece della agognata spiegazione trovo una breve frase dell’artista (la stessa per tutte le opere, stile cioccolatino). Allora clicco sul profilo dell’artista e scopro che "nella sua opera si esprime una sensibilità affondata in tensioni utopiche e idealistiche, che privilegiano la trasmissione di contenuti anche eversivi…": dov’è che l’ho già sentita?
Uscendo dalla Galleria d’Arte Moderna mi viene in mente un libro di Bruno Munari. C’era una foto di un bel vecchio intabarrato, uno di quei vecchi che abitano nei piccoli paesi e ti guardano con un’aria tra il dispettoso e l’interrogativo. Commento dell’autore:
In fondo lui vorrebbe capire il mondo dell’arte. Le sue idee sono confuse, a scuola gli hanno insegnato che l’arte è una certa cosa. Nella vita trova invece che c’è una moltitudine di cose che vengono spacciate per arte ma che lui non è in grado di capire. Dubita di ciò che gli hanno insegnato, diffida di ciò che vede. […] Perché la critica d’arte non lo aiuta a capire? Milioni di persone sono come lui: contadini e contesse, notai e dirigenti di industria, vescovi e cantautori. Invece di fare dell’esibizionismo culturale, certa critica potrebbe umilmente parlare a questa gente.
(La critica d’arte e le istruzioni per l’uso, in Id., Artista e designer, Bari, Laterza, 1978, pp. 83-84.)
Si fa presto a dire exhibit
Communication, ospitata da Palazzo Re Enzo, si autodefinisce una "mostra interattiva sulla storia e sulle tecnologie della comunicazione", che coniuga "rigore scientifico e passione divulgativa". All’ingresso ricevo un dépliant con la mappa della mostra e un comunicato stampa di una facciata.
Nella sezione documentaria sono esposti un centinaio di pezzi d’epoca (radio, telefoni, fonografi, macchine cifranti), ma a parte le scarne notizie storiche sulle tappe della loro invenzione non trovo nessuna spiegazione, per quanto elementare, sui meccanismi di funzionamento. Neanche del telegrafo senza fili riesco a capire qualcosa di più, nonostante gli sia dedicato un approfondimento particolare curato dalla Fondazione Guglielmo Marconi.
L’unica spiegazione che riesco a rintracciare sui famosi esperimenti bolognesi del 1895 è contenuta nella didascalia di una foto:
L’antenna è composta da un palo di legno alla cui sommità sono sospesi quattro cubi di latta che rappresentano una capacità elettrica e sono collegati a un conduttore elettrico che essendo isolato lungo il palo forma un’induttanza. La capacità e l’induttanza formano il gruppo oscillante detto LC.
Sul rigore scientifico non posso pronunciarmi, ma quanto a passione divulgativa, ho il sospetto, si potrebbe fare qualcosa di più.
E il sospetto diventa certezza di fronte a pannelli che sembrano scritti per essere compresi solo da pochi intimi. Come quello che parla di monete antiche e di contraffazioni "studiate al SEM", dove solo a un certo punto si scopre che SEM sta per Scanning Electron Microsope: a parte il refuso (microsope anziché microscope), chi non sa l’inglese e non è del ramo farà molta fatica a capire che si tratta del microscopio a scansione elettronica.
Per sfuggire al complesso di inferiorità che prima o poi in questi casi assale chi non ha mai preso più di sei in matematica non mi resta che provare a giocare con i venticinque exhibits, le "macchine interattive" che "spiegano – con materiali, tecnologie e linguaggi apparentemente 'semplici'– alcuni passaggi nella storia più recente della ricerca scientifica sulle comunicazioni” (così recita il dépliant, eccetto il mio corsivo irriverente).
In effetti la maggior parte di questi exhibits sono realmente semplici, ma si limitano a mostrare in modo episodico dei fenomeni particolari, ad "esibirli" come dice appunto la radice latina del termine inglese. Più che a spiegare, insomma, questi giochi servono a destare la nostra curiosità, come quello che fa esclamare: "Che strano! Se parlo qui, stando vicino alla parabola, mi puoi sentire anche laggiù a 10 metri!".
Kantharos kantharos … chi era costui?
Quando varco la soglia del Museo Civico Archeologico ho finalmente una lieta sorpresa: per la visita di "Principi etruschi tra Mediterraneo ed Europa", oltre al poderoso catalogo, si possono acquistare a basso prezzo una sintetica guida tascabile ed un coloratissimo quaderno didattico.
I testi dei pannelli in mostra sono scritti in lettere grandi e sono abbastanza brevi da consentire una lettura agevole. Peccato solo che soffrano, anche in questo caso, di una certa tendenza all’astrattezza e al tecnicismo:
Le sculture orientalizzanti di area padana formano un gruppo di monumenti molto eterogeneo per forma, dimensioni e decorazioni, ad eccezione delle cosiddette "stele a disco", segnacoli tombali privi di confronti in area tirrenica, tutti caratterizzati dalla medesima foggia, con corpo rettangolare, parzialmente destinato all’infissione nel terreno, ed elemento discoidale impastato alla sommità del corpo.
Nella descrizione di un palazzo, per fare un altro esempio, si dice:
Una struttura tripartita, comprensiva di vestibolo, di vano per i banchetti e di ambiente per i lavori domestici, costituisce il fulcro di edifici porticati, affacciati su una vasta corte, sede delle attività rituali che scandiscono la vita aristocratica.
E ancora, scendendo più in dettaglio:
Sulla sommità del tetto sono collocati gli acroteri fissati al coppo di colmo.
Parlando di una tomba, infine, si precisa che
sui soffitti delle camere sono riprodotte le travature di un tetto displuviato, secondo l’uso generalizzato di assimilare la tomba alla casa aristocratica.
La cosa più spiacevole, però, è che né i pannelli né la guida tascabile si preoccupano di spiegare al pubblico i termini tecnici di cui abbondano i cartellini dei reperti esposti, col risultato che a me (come a moltissimi altri) rimarrà per sempre il dubbio inquietante sulla differenza che passa tra una decorazione a sbalzo, a granulazione e a filigrana, o su che cosa sia esattamente un impasto buccheroide, un acroterio a ritaglio, un kantharos baccellato, una protome, una situla, un simpulum, un oinochoe, un kyathos, un askòs …
Solo alla fine della visita mi accorgo che ho con me anche il quaderno didattico. L’attacco suona tutta un’altra musica:
Sei pronto per affrontare un viaggio nel tempo? Stai per conoscere un principe etrusco vissuto, nel VII secolo prima della nascita di Cristo, in una delle più famose città dell’Etruria. Potrai visitare il suo palazzo, partecipare ad un ricco banchetto, entrare nella splendida tomba della sua famiglia (tranquillo, potrai anche uscirne!) e vivere per un giorno come un vero aristocratico etrusco.
Averlo aperto prima! Il linguaggio dei testi è calibrato sulle esigenze dei bambini e tutti i termini tecnici dell’archeologia etrusca sono spiegati in modo semplice, anche con l’aiuto dei disegni. Il quaderno introduce alla visita della sezione didattica della mostra, che purtroppo però è aperta solo alle scolaresche. Un destino beffardo sembra dividere gli adulti dai bambini: se a noi tocca rimanere soli con la tortura dei nostri dubbi, a loro è concesso il privilegio di una spiegazione chiara e divertente.
Promemoria: essere chiari
Al termine della ricognizione, senza avere la pretesa di stilare giudizi, si può almeno concludere che nella grande mole di lavoro richiesta dall’organizzazione di una mostra la qualità della comunicazione scritta tende ad essere piuttosto trascurata.
Quando nella scrittura dei testi che saranno letti dai visitatori non si considera quanti di loro hanno dimestichezza con l’italiano colto, quanti conoscono i termini tecnici di una disciplina, o quanti parlano le lingue straniere, quei testi anziché "comunicare" un sapere, anziché metterlo in comune, lo "privatizzano", riservandolo solo a chi già lo possiede.
Mai mettere da parte la paura di essere chiari. Primo Levi lo suggeriva con quieta saggezza:
Non si dovrebbe scrivere in modo oscuro, perché uno scritto ha tanto più valore, e tanta più speranza di diffusione e di perennità, quanto meglio viene compreso.
(Dello scrivere oscuro, in Id., L’altrui mestiere, Torino, Einaudi, 1985, p. 50)
E a ricordarci di essere chiari c'è anche l’urlo del pallanuotista morettiano:
Bastaaa! Le parole sono importanti!
Vittorio Ferorelli, classe 1971, pubblicista, lavora all’Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna come redattore ed editor della rivista IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali.
Sulla necessità della chiarezza nella comunicazione scritta (non c’è dubbio: il suo pallino) colleziona pubblicazioni e organizza brevi seminari.