C’era una volta… (perché anche le aziende hanno bisogno di storie)
Overdose è il titolo di un bel libretto di Giuliano da Empoli (Marsilio, 9 euro) che questa estate mi ha fornito parecchi spunti di riflessione. In realtà, è stato soprattutto il sottotitolo ad attirarmi: “La società dell’informazione eccessiva”. Un sottotitolo che tocca le corde sensibili di tutti noi comunicatori, assediati e bersagliati come siamo di informazioni e notizie d’ogni tipo, attraverso tutti i media e a tutte le ore.
Il libro è smilzo, ma denso. Giuliano da Empoli espone la sua analisi e le sue idee con garbo e grande chiarezza, che già da soli - e di questi tempi - sono valori non da poco.
La tesi del libro è che le tantissime informazioni che abbiamo ormai a disposizione non sempre, anzi raramente, riescono a trasformarsi in conoscenza, ovvero in valore, in nuovi strumenti e nuove idee per cambiare e migliorare un po’ le nostre vite e l’ambiente in cui viviamo.
Non ci riescono non solo perché sono troppe, ma soprattutto perché la selezione, il confronto, l'elaborazione, l'interpretazione non possono avvenire con tutto il rumore di fondo che ci circonda, né nello spazio gelido di un computer.
La trasformazione delle informazioni in conoscenza, esattamente come tanti secoli fa, esige lo spazio della mente umana, la sensibilità e la cultura del singolo individuo. Possibilmente di quello capace di staccare la spina, disconnettersi, immergersi nel silenzio, mettere ordine tra i dati e le idee.
La sovrabbondanza delle informazioni porta anche alla iperspecializzazione, alla frammentazione dei saperi, all’impossibilità di riportare migliaia di dati e di notizie a un quadro unitario, a una griglia interpretativa: siamo al “trionfo delle piccole narrazioni, delle tendenze, delle mode”.
Internet in questo non ci aiuta, o meglio ci toglie con una mano ciò che ci porge con l’altra: da una parte ci mette a disposizione un intero universo informativo (dandoci qualche volta l’illusione di possederlo), dall’altra la sua architettura ipertestuale contribuisce alla frammentazione e allo spezzettamento del sapere. Parafrasando da Empoli, possiamo dire di essere al trionfo del testo ultrabreve, dello slogan, del paragrafo, del chunk.
Ma il nostro giovane autore ci fornisce anche una serie di antidoti alla sindrome da informazione eccessiva. Antidoti apparentemente semplici, che però esigono dal singolo individuo una certa dose di coraggio:
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il coraggio di essere sintetici e chiari
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il coraggio di disconnettersi
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il coraggio di recuperare una dimensione narrativa e lineare.
Sherazade si può trovare a suo agio anche in un'azienda: due consulenti di organizzazione e comunicazione tedeschi hanno scritto un intero libro per dimostrare che le organizzazioni moderne hanno bisogno di storie (Das Unternehmen im Kopf, ovvero "L'azienda nella testa"). Il loro metodo si chiama, non a caso, storytelling. Quest’ultima “medicina” ha attirato tutta la mia curiosità, perché negli ultimi tempi il mondo della comunicazione, anche quello online, è tutto percorso da una febbre narrativa, da una nostalgia di racconto, da un bisogno di storie.
L’ipertesto è utile, i link terribilmente funzionali, ma il meccanismo narrativo non solo ci tiene inchiodati alla lettura e all’ascolto, ci aiuta anche a dare un senso ai problemi e alle idee, a cercarne i nessi, a scoprirne le implicazioni, a giungere alle conclusioni.
Le idee di Karolina Frenzel e Hermann Sottong sono abbastanza semplici, di buon senso e ampiamente condivisibili.
C'è un'azienda ufficiale, che si esprime attraverso il sito, le brochure, le mission, le dichiarazioni del top management, il bilancio, gli organigrammi, i comunicati stampa.
E c'è un'azienda "nella testa delle persone" che vi lavorano, fatta di esperienze individuali, di storie personali, di sentimenti, di relazioni, un'azienda che si esprime soprattutto attraverso il racconto.
Non si possono affrontare grandi progetti di cambiamento, di rebranding, di comunicazione interna ed esterna senza ascoltare queste due voci, senza confrontare questi due mondi, cercando di capirli entrambi. Quando l'azienda non segue il management, quando la comunicazione non funziona, quando l'intranet non la guarda e non la legge nessuno, non diciamo sempre che è un "problema di persone, di mentalità"? Eppure quasi mai i consulenti, nello stendere i loro piani, si preoccupano di capire cosa c'è nella testa della gente, cosa pensano, quale sia la loro immagine dell'azienda e quale la loro relazione con essa.
Le aziende oggi sono grandi, frammentate, complesse: è difficile delinearne il quadro complessivo. Le "storie" aiutano a comporre il quadro vero e concreto dell'azienda, quella che i dipendenti vivono e sentono.
E del resto, qualsiasi comunicatore interno sa bene che sull'intranet aziendale gli articoli più interessanti, le storie più lette, i dossier più riusciti non sono quelli commissionati dall'alto management, ma quelli nati ascoltando i colleghi alla macchinetta del caffè, chiacchierando durante il pranzo, mettendo insieme storie, idee e notizie.
Adottare un taglio più narrativo nella comunicazione aziendale, anche in quella esterna e "ufficiale" aiuta spesso a conquistare attenzione e lettori, a sfuggire i pericoli dell'omologazione, a dare all'organizzazione uno stile e una voce propri. Un freddo case history può essere narrato come un racconto, con un inizio, uno svolgimento e una conclusione. E così per un nuovo prodotto, la cui nascita può essere raccontata dalla viva voce dei suoi progettisti.
We all love a story: non è il titolo di una canzone, ma quello di un articolo apparso sul prestigioso sito di web marketing ClickZ. Il tema: la comunicazione di prodotto business-to-business. La raccomandazione: non descrivete i prodotti, ma raccontate come riescono a cambiare la vita quotidiana della gente.